Moda africana: tra stili, tessuti e designer da scoprire

È più facile sentir parlare di “stile Afro” che di moda africana. Eppure, con i suoi 30 milioni (circa) di metriquadrati, l’Africa è una fucina di creatività al di là della mera ispirazione.

Più volte la moda ha attinto direttamente dai colori, dalle forme, dalle stoffe e dai tagli di questo suggestivo Continente: prima fra tutti la Parigi degli anni ’30, affascinata da una sensuale Josephine Baker che amava danzare col seno nudo e camminare per le vie della città con al guinzaglio un magnifico leopardo. Le avanguardie artistiche cubiste, il jazz e poi il Dark Decò (tra il primitivo e l’astratto) dell’epoca segnarono la nascita del quartiere afro-bohémiens di Montmatre, da qui la moda e l’ispirazione.

Diversi richiami li troviamo anche nel prêt-à-porter: la collezione Afro di Missoni nel ’90, la linea Masai firmata Galliano nel ’97, quella Tuareg per Gaultier e la declinazione più chic del 2001 per Ferrè. Ultimo omaggio quello di Maria Grazia Chiuri e Pierpaolo Piccoli per la collezione Primavera/Estate 2016 di Valentino. Tutto questo, però, fa parte dell’Occidente moderno che, ammaliato, guarda con fascino il continente dal Cuore di Tenebra, interpretando i suoi codici stilisti (considerati “esotici”) con un gusto più incline all’immaginario comune. La moda Made in Africa è tutt’altro, molto di più.

Noi vogliamo fare un passo in avanti: se la bellezza e il valore risiedono nella multiculturalità, vale la pena indagare realmente su quali sia le suggestioni, le tradizioni e, perché no, le contraddizioni dell’Africa.

La moda africana è qualcosa di più del semplice “esotico”, “stile Afro” o “stile tribale”. Rappresenta la joie de vivre con le sue fantasie dai colori puri, vividi, tipici della sua Terra. È innata eleganza: sono i ritratti raffinati in bianco e nero di Seydou Keita che, con le sue istantanee, mostra il valore artistico (nonché sociologico) del costume e della moda malinese del 20esimo secolo. È anche sonorità, musicalità: i lunghi abiti che strisciano sulla terra rossa, i monili che tintinnano ad ogni passo, la gestualità ritmica tipica della loro cultura, la voce così come il profumo che avvolgono le sue affascinanti donne.

Ogni dettaglio rappresenta uno specifico linguaggio ancestrale. Le stesse acconciature hanno una puntuale comunicazione: rappresentano uno status sociale, una propria emotività o un’appartenenza. Le treccine aderenti, cornrows, non sono semplici “treccine”: il solo atto dell’intreccio, di come vengono unite le ciocche, è un rito tramandato di generazione in generazione, tipico di ogni famiglia e/o tribù.

Gli stessi tessuti parlano della loro Africa: il bogolan vegetale, ricco di pittogrammi volti a raccontare la storia della propria tribù; il velluto di corteccia; i kente, la stoffa del Ghana simile alla seta ma dai colori puri e ricca, declinato in fantasie che mostrano la tradizione; il kasai; il batik; il kuba, vivo di simbolismi geometrici. Un capitolo a parte per il wax, la lavorazione portata dagli olandesi ma destinata a diventare il tipico tessuto del Giava, nonché trama per eccellenza dell’Africa: ricco di colori e pattern, caratterizzati dalla tinta in cera, ogni anno vengo proposti più di cento disegni nelle diverse regioni.

Troppo facile dire “esotico”, “tribale”: le lavorazioni artigianali mostrano con fiera esuberanza uno specifico e unico savoir-fair che non si ritrova in altre culture, perché così fortemente legato alla sua Terra.

La moda africana ha però un respiro più ampio, non si è fermata al costume tradizionale: è dicotomia, contaminazione tra l’identità nazionale africana e la modernità urbana. Sono gli anni ’80 quando Chris Seydou irrompe nel mercato con collezioni che celebrano la cultura maliana, tagliando capi “occidentali” con del tessuto bongolan: è la summa della sua storia, un’esplicita riflessione sull’esperienza d’immigrato a Parigi, dove lavora per Yves Saint Laurent. Da qui si inizierà a parlare di un african style autoctono, che non ha niente a che vedere con la moda francese-parigina anni ’30. Seguirà l’ivoriano Pathé O, con la prima linea di prêt-à-porter Made in Africa, con stampe wax, tessuti a telaio, grafiche senegalesi, ivoriane e nigeriane fuse con lo stile street (famose le sue camicie indossate da Nelson Mandela), e l’innovativo maliano Xuly Bët che mixa tessuti locali con ritagli di capi usati per ricreare patchwork vivaci e coloratissimi, una declinazione multicolor del funky-punk, rigorosamente Made in Africa.

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